Tra Harris e Trump pare ovvio quale fosse il candidato “migliore” dal punto di vista di chi ha a cuore la crisi climatica: Trump ha fatto uscire gli USA dall’accordo di Parigi (e probabilmente lo rifarà), vuole ritirare la firma anche dagli accordi di Rio del 1992, ha tra i suoi sostenitori - e sua volta apertamente sostiene - le grandi compagnie petrolifere americane, è un fan dell’espansione dell’attività estrattiva (drill, baby drill!), vuole eliminare le restrizioni alle emissioni industriali di CO2 introdotte dai democratici ed è un negazionista climatico totale…
Harris invece avrebbe (forse, chi lo sa?) continuato la politica del presidente Biden, con il ritorno nell’accordo di Parigi, i 370 miliardi di dollari dell’Inflation Reduction Act per la produzione di energia da fonti rinnovabili e i 1.200 miliardi dell’Infrastructure Investment and Jobs Act di incentivi alle auto elettriche. Sulla carta sembra che la vittoria di Trump segni un danno enorme per le prospettive di ripristino dell’ecosistema terrestre. Però…
L’accordo di Parigi, come abbiamo già sottolineato, in quasi 30 anni di COP non ha ottenuto alcun risultato in termini di riduzione delle emissioni, che sono invece sempre aumentate. A sanzionare la totale inconsistenza delle COP basti considerare che Azerbaijan (in cui si terrà tra pochi giorni la 29° COP), Emirati Arabi Uniti (in cui si è tenuta la 28°) e Brasile (in cui si terrà la 30°), si apprestano secondo Oil Change International ad aumentare la produzione di combustibili fossili del 32%. La politica espressa al riguardo dalle amministrazioni “progressiste” dei Paesi occidentali alla prova dei fatti si rivela quindi del tutto inconsistente.
La politica americana di sostegno alle energie rinnovabili e all’auto elettrica promossa dai democratici, mira sostanzialmente a rafforzare il ruolo del Paese nella produzione di tali beni, in una logica di produzione/consumo, che se da un lato propone una prospettiva di mercato di beni e servizi a minor impatto ambientale relativo, dall’altro rimane sostanzialmente BAU (business as usual), con l’obiettivo di fondo di continuare a creare e conquistare mercati, e chi rischia di fare da padrone alla fine è il paradosso di Jevons, con un saldo ambientale dell’operazione pari a zero, se non negativo. Va inoltre detto che Harris pare non avesse nemmeno assunto posizioni chiare al riguardo, allineandosi al trend (che abbiamo visto da ultimo manifestarsi chiaramente in Europa) di allontanamento imbarazzato da qualsiasi politica ambientale che possa, oltre ai contributi a pioggia all’industria green ed al chit chat ambiental-progressista, avere anche qualche effetto, sempre a discapito dell’economia (come in larga misura inevitabile). Una politica simile probabilmente non ha (ne ha mai avuto) alcuna possibilità di avere effetti concreti nella lotta alla crisi climatica.
L’orco a colori (come è stato definito da G. Ferrara), paradossalmente, potrebbe invece avere effetti positivi sull’ambiente: la sua visione è sostanzialmente antiglobalista, localistica e protezionista e potrebbe dare un bel colpo al sistema degli scambi internazionali, riducendo il commercio globale e il consumo di risorse naturali. Non è un caso che l’Economist, una delle voci più qualificate e attente del sistema economico globalizzato, gli abbia esplicitamente preferito Harris. Inoltre la sua politica estera è chiaramente orientata al disimpegno americano e chissà che questo non possa contribuire a ridurre la conflittualità bellica che in diverse aree provoca danni ambientali enormi (es. Ucraina).
Nell’eterno confronto tra i “buoni a niente” e i “capaci di tutto” con Trump hanno vinto oggi questi ultimi. Chissà se alla fine, almeno in tema di ambiente, non saranno capaci anche di sorprenderci.