Il business del disastro

7 agosto 2024 495 parole

Fino ad un passato non molto lontano la distruzione di un ponte, una casa, un carretto o altro causato da un evento di qualsiasi genere (un terremoto, una guerra, un'alluvione, una frana, ecc.), veniva considerato come un danno e basta, a fronte del quale l'unica reazione possibile era una rassegnata disposizione a destinare alla ricostruzione dello stesso enormi e preziose risorse, che si sarebbero volute destinare ad altro, per migliorare la condizione di vita propria e dei propri figli.

Oggi non è più così: la ricostruzione che segue alla distruzione non è più un destino avverso al quale rassegnarsi, ma una grande opportunità di sviluppo e crescita, l'occasione per sostenere attività produttive e per allargare la propria area di intervento (i numerosi incontri transnazionali di preparazione alla fase di ricostruzione post bellica in Ucraina ne sono un esempio). La ricostruzione inoltre viene promossa indipendentemente dalla sua necessità, proprio in quanto opportunità, mentre in passato veniva ricostruito solo quanto realmente necessario...

Come mai questo radicale cambiamento di prospettiva?

Perché oggi, diversamente dal passato, le risorse disponibili si pensano infinite: il meccanismo del debito ha svincolato l'uomo dalla necessità di fare i conti con la finitezza delle risorse, rendendole sostanzialmente infinite.

Un approccio che nasce e si sviluppa in un epoca in cui il surplus energetico, il ritorno energetico sull'investimento (EROI) e la recente e larga disponibilità di combustibili fossili, garantiva enormi capacità di produzione di beni e servizi, resi disponibili ad un numero di persone esponenzialmente crescente.

Purtroppo l'EROI medio del petrolio, che era ca. 100 nel 1950 (epoca del Piano Marshall), è oggi intorno a 10 (previsto scendere a 6/7 in pochi anni).

Ma a tale drammatica riduzione dell'EROI non è corrisposta una corrispondente resipiscenza nell'azione espansiva della politica economica basata sul debito. La cosa non può stupore peraltro, perché - a parte rare eccezioni come ad esempio Steve Keen - gli economisti ignorano il nesso causale tra energia ed economia e considerano l'energia come una commodity poco più significativa del succo d'arancia concentrato...

Anzi, in una sorta di hybris collettiva, con gli anni la vertigine della spesa pubblica incondizionata ha prevalso sulla logica del "buon padre di famiglia", che ridurrebbe al minimo il consumo di risorse limitate al fine di conservarle per le generazioni che seguiranno. Oggi invece i padri dissipano le risorse di figli e pronipoti, incuranti di come questi potranno far fronte a un tale debito.

Purtroppo questo approccio ha un altro effetto perverso: snatura una valutazione obiettiva dei danni - crescenti - causati dal cambiamento climatico: incendi, alluvioni, precipitazioni sempre più violente e devastanti vengono considerate come occasione di ricostruzione, nuova spesa (a debito), realizzazione di nuovi manufatti: un traino per creare posti di lavoro e far crescere l'economia... Crescita che contribuisce inevitabilmente al cambiamento climatico quindi a rendere tali eventi sempre più dannosi e frequenti.

E' questo un fraintendimento collettivo, un circolo vizioso del pensiero, rispetto al quale l'individuo ha sempre più difficolta a sottrarsi.