La politica tecnocratica ha un’inclinazione naturale (resa più marcata dai social media) ad inventare formule lessicali efficaci, vaghe e fuorvianti. Una di queste è la “neutralità tecnologica”, cavallo di battaglia del Governo attuale al punto da essere “ufficialmente riconosciuta dal G7 dei trasporti”, oltre che da un corposo numero di tecno-econo-ottimisti. Sembra una buona cosa la “neutralità”, in un’epoca di feroci contrapposizioni. Ottimo! Ma esattamente che significa “neutralità tecnologica”?
In origine la fonte è comunitaria: il Regolamento (UE)n. 283/2014 definisce la neutralità tecnologica come “la libertà delle persone e delle organizzazioni di scegliere la tecnologia più adeguata ai loro bisogni”, cioè fare quel che si ritiene meglio fare in base ai propri bisogni. Messa così il concetto parrebbe avere l’utilità di un annaffiatoio quando piove.
Ma il diavolo si nasconde nei dettagli e, come spesso accade con le proposizioni ambigue ed accattivanti, il loro uso e declinazione comporta risvolti assai meno banali.
Cercando in rete, gli amici dell’ENI la definiscono come “il principio secondo cui la transizione energetica è realizzabile attraverso un approccio flessibile alle tecnologie disponibili, non limitato a una unica soluzione, ma attraverso un mix di tecnologie di cui disporre di volta in volta in base alla loro maturità ed efficacia nel ridurre le emissioni”; un economista interpellato da Il Sole 24 Ore la intende come “un approccio non discriminatorio alla regolazione dell’uso delle tecnologie, lasciando il mercato deciderne la combinazione ottimale” (quasi che il mercato dell’energia fosse libero e perfetto, vien da dire…), il Ministro Salvini invece la associa ad una “transizione ecologica priva di ideologia e improntata al buon senso”. Insomma la solita solfa che si tratta di essere “pragmatici”, “non ideologici”, etc. etc. (vedi questo spuntino su un’altra formula di gran moda: l’approccio “ideologico”).
Alla base c’è ancora una volta il concetto che la transizione energetica (ecologica) non può e non deve interferire con le ragioni dell’economia, intesa come processo di trasformazione delle risorse naturali volto ad aumentare la quantità di beni scambiati sul mercato e, di conseguenza, la ricchezza comunemente intesa (PIL), il gettito fiscale, etc.: la transizione può essere considerata accettabile solo se “non ideologica” ovvero se - e nella misura in cui - sia subordinata alle ragioni della crescita.
La “libertà di scelta” di cui sopra si rivela quindi una patacca: l’unica possibilità offerta è quella di subordinare un interesse collettivo (la conservazione ed il ripristino dell’ecosistema naturale) ad un altro (la crescita economica, l’occupazione, il servizio del debito), ritenuto superiore a prescindere, quale che sia la rilevanza, impatto reale e potenziale che la questione ambientale può assumere. Il motore endotermico in questa prospettiva può restare migliore di quello elettrico, il carbone e gas meglio delle fonti eolica o solare (etc. etc.) perché più e meglio funzionali alla crescita economica. Con buona pace della crisi climatica, dei Report dell’IPCC (buoni solo ad essere menzionati nelle 48 ore successive alla pubblicazione) e quant’altro.
“Neutralità tecnologica” suona bene e può diventare un nuovo mantra tecnocratico per celare opportunamente l’abbandono di una politica volta a tutelare gli interessi dei nostri figli e nipoti a favore di un orizzonte temporale contingente e nella finzione di un approccio “laico”, che in realtà abbandona il terreno del pensiero razionale per lasciarsi strattonare dai gruppi di interesse economico, consapevole che adottare una visione a lungo termine, ragionevole ma poco attraente, non paga in termini elettorali.
A ciò ha purtroppo anche contribuito il concetto di “sviluppo sostenibile”, la rappresentazione della “transizione green” magnificata come nuova occasione di sviluppo, di crescita, di benessere. Uno story telling fuorviante che troviamo ovunque, persino nei famosi 17 obiettivi di sostenibilità delle Nazioni Unite, un’insalata russa di meravigliose prospettive di sviluppo infinito, indifferenti al fatto che in un sistema con 8 miliardi di persone e risorse non infinite alcuni obiettivi (salute, lavoro, nutrizione, lotta alla povertà, riduzione delle disuguaglianze, etc.) possono essere perseguiti - in gran parte - solo ed inevitabilmente a scapito dell’ambiente naturale.