L’orto nel supermercato

MWh
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7 ottobre 2024 533 parole

L’idea non è nuova: le coltivazioni idroponiche, ovvero fuori suolo basate sulla somministrazione accurata di acqua, fertilizzanti e luce, sono un concetto già teorizzato da Francis Bacon nella prima metà del 1600. Nei successivi quattro secoli sono poi state ideate svariate altre modalità di coltivazioni fuori terra, che non andremo qui ad elencare.

Recenti sviluppi tecnologici hanno reso economicamente sfruttabile questa modalità di produzione e vendita diretta letteralmente a chilometro zero, al punto che una start-up svedese ha iniziato una prima sperimentazione di produzione in punti vendita in Germania.
Il loro claim è ovviamente un elogio alla sostenibilità e alla resilienza rispetto ad avverse condizioni climatiche: i consumi di acqua sono trascurabili rispetto a una coltivazione in terra, così come l’uso di fertilizzanti è molto più mirato e la loro dispersione nell’ambiente contenuta.

Noi di ResConDA siamo interessati al bilancio energetico dei processi e ci siamo chiesti quale potrebbe essere la differenza di fabbisogno energetico rispetto alla coltivazione tradizionale. Costruire, montare, mantenere e smaltire l’infrastruttura necessaria per la coltivazione fuori terra ha sicuramente un costo energetico ma, come vedremo alla fine, l’elemento più impattante è l’energia elettrica necessaria per l’illuminazione. Infatti queste piante, poste all’interno di edifici, hanno bisogno di illuminazione artificiale e quindi di un input energetico extra. Anche potendo sfruttare in qualche modo la luce del sole, per ottimizzare il processo (massimizzare il profitto), il distributore-coltivatore userà l’illuminazione artificiale per estendere le ore di fase attiva delle piante, accorciando i tempi di crescita dei loro frutti. Non a caso su vari siti di aziende che propongono tali soluzioni il “risparmio energetico” non è mai elencato tra i “benefici” del processo.

Non è facile fare stime generali su quanta energia serva per unità di superficie di coltivazione idroponica: le variabili sono tante: il tipo di coltivazione, la struttura dell’impianto, la disposizione delle piante, l’apporto parziale di luce naturale, etc.
Un’azienda statunitense fornisce una informazione al riguardo (qui, prima risposta): nel 2017, piccole coltivazioni verticali (idroponiche o aeroponiche) hanno speso in media 282 kWh/m2/anno. Controintuitivamente, impianti più grandi non sembrano fare una buona economia di scala, ma richiedono invece più del doppio di input energetico (653 kWh/m2/anno).

Assumendo per i grandi supermercati europei un valore indicativo (vicino al primo) di 300 kWh/m2/anno ed ipotizzando un’area dedicata di 40 m2 (due rettangoli da 2x10 m), otteniamo una energia spesa in un anno pari a 12 MWh, corrispondente ad una potenza media erogata di 1,37 kW (grosso modo come due utenze domestiche). Tanto? Poco? Possiamo fare un confronto con i dati di CED (Cumulated Energy Demand) dell’insalata del database Agribalyse, per l’insalata “tradizionale” pari a 4,86 kWh per ogni kg di prodotto. Se dividiamo l’energia annua di cui sopra per questo valore, dovremmo poter produrre nei nostri 40 m2 ben 2.470 chili di insalata! Poiché tuttavia sembra che non si possano far crescere più di 5-7 kg/m2/anno di insalata, l’orto del nostro supermercato non riuscirà a produrne più 240 kg, esattamente un decimo di quello che si potrebbe produrre in terra con la stessa quantità di energia. In altre parole se il contenuto energetico (indicatore attendibile e diretto di impatto ambientale) dell’insalata “tradizionale” è pari a circa 5 kWh/kg, quella idroponica viaggia sui 50 kWh/kg!