E la fusione nucleare?

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L’interno del tokamak del progetto europeo JET

7 settembre 2024 945 parole

Anche se ha iniziato tardi rispetto all’Occidente a investire sulla ricerca nella fusione nucleare, la Cina ha ormai da tempo recuperato il divario e sta andando spedita, come in molti altri settori tecnologici, mirando alla leadership anche in questo campo. I suoi obiettivi sono certamente ambiziosi, soprattutto considerati i risultati, finora poco soddisfacenti, ottenuti da Europa e Stati Uniti in ormai più di 50 anni di progetti.

Ma perché dunque spendere così tanti soldi (si stima 1,4 miliardi di euro all’anno) in una tecnologia che non si è ancora dimostrata commercialmente sfruttabile? La risposta sta nel potenziale ritorno, sia economico ma soprattutto energetico: ottenere una fusione auto-sostenuta, riducendo opportunamente l’“investimento energetico” iniziale, permetterebbe:

  • produrre una quantità di energia pressoché illimitata,
  • con materie prime pressoché inesauribili,
  • con rischi operativi o di danni collaterali trascurabili rispetto alla tecnologia “sorella” di produzione di energia elettrica, ovvero la fissione nucleare.

Vediamo di capire un po’ meglio ciascuno di questi aspetti.

MATERIE PRIME

Il carburante del tipo di reattore a fusione al momento più promettente sono degli isotopi dell’idrogeno: il deuterio e il trizio. Il primo si trova in natura nell’acqua (costituisce lo 0.02% di tutti gli atomi di idrogeno) e lo si può estrarre con un processo fisico relativamente conveniente; il trizio è molto più raro, ma si produce con relativa facilità in un processo di fissione di atomi di litio. A conti fatti, l’abbondanza di materia prima non sarebbe un problema.

ENERGIA

La fusione nucleare è il processo per cui due atomi fondono i propri nuclei per formare uno (solitamente) o più atomi diversi (cioè elementi diversi), più pesanti, e nel farlo possono liberare o assorbire energia, a seconda degli atomi di partenza.

Questo disavanzo di energia deriva da una proprietà della fisica nucleare per cui l’energia interna a un nucleo varia al variare dei nucleoni (protoni e neutroni) che lo compongono. L’esempio più diffuso è il processo di fusione di due isotopi dell'idrogeno, il deuterio e il trizio, che si fondono in un atomo di elio, liberando un neutrone. È la principale reazione che avviene nelle stelle, tra cui il nostro sole, e a cui dobbiamo la quasi totalità dell’energia disponibile sulla terra (compresa quella fossile).

Per rendere l’idea: se si potessero pesare gli atomi di partenza, farli fondere e poi pesare l’elio e il neutrone risultanti, si vedrebbe che la somma del peso di questi ultimi è inferiore a quello di partenza. La differenza di massa si è trasformata appunto in energia. Questo disavanzo positivo di energia tende a ridursi al crescere delle masse degli elementi iniziali e, di conseguenza, dei prodotti finali. Il punto di massimo si raggiunge con l’atomo di ferro, che è quello con il nucleo più stabile, ovvero con la maggiore energia di legame dei suoi componenti. Questo spiega perché la fissione, che è il processo inverso di scissione di un atomo (solitamente) pesante in due o più “pezzi” più leggeri, viene fatta con atomi molto pesanti, più pesanti del ferro, così da restituire comunque energia nel processo di divisione, ovvero la massa dell’atomo iniziale è maggiore della somma delle masse dei prodotti di fissione.

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Ovviamente a noi interessano i casi in cui i due atomi di partenza si fondono liberando energia, che è quella che puntiamo a “catturare” e usare. Sulla singola reazione la fissione di un nucleo, ad esempio di uranio 235, produce nominalmente più energia della fusione di due atomi di deuterio e trizio. Ma a parità di volume macroscopico in cui viene creato un processo di fissione o fusione, nel secondo caso la densità energetica, e quindi l’energia estraibile, è enormemente più elevata.

Viene quindi spontaneo chiedersi: perché ancora ci ostiniamo a costruire centrali a fissione e non abbiamo nemmeno un impianto industriale di fusione? Il motivo di base è di nuovo legato alla fisica: i due atomi di partenza non hanno nessuna voglia non solo di fondersi, ma nemmeno di avvicinarsi tra loro (di base hanno entrambi una carica elettrica positiva). Il problema diventa quindi tecnologico: un reattore a fusione richiede un’infrastruttura tale da poter creare le condizioni di innesco della reazione, in primis una temperatura molto elevata (per costringere gli atomi a darsi appuntamento), e da poter mantenere la reazione a tempo indeterminato, confinando il plasma di combustibile che altrimenti tenderebbe a disperdersi e a far spegnere velocemente il processo. Al netto dell’energia che dobbiamo immettere nel sistema per mantenere queste condizioni, quella che (se) rimane la si può estrarre e trasformare in energia elettrica, con la solita efficienza dei noti sistemi di generazione.

In breve: non siamo ancora riusciti a ingegnerizzare un impianto di fusione con un EROEI sufficientemente elevato da essere commercialmente vantaggioso. Ci riusciremo mai? Il dibattito è molto acceso. Per chi non è del settore, la risposta dipende probabilmente dal grado di fiducia incondizionata (fede?) che si nutre nella capacità della tecnologia di salvare l’umanità.

SCORIE E SICUREZZA

Come si è visto, gli atomi e le particelle in gioco sono semplici (idrogeno, elio, neutroni) e soprattutto non radioattivi.
Rispetto ai reattori a fissione, poi, qui non c’è rischio di reazione a catena incontrollata: non serve materiale moderatore e l’errore umano può, alla peggio, far spegnere il reattore.
Ci sono comunque aspetti da tenere in considerazione, in quanto i materiali del vessel del reattore, essendo bombardati costantemente da neutroni e altre radiazioni elettromagnetiche, tendono a diventare radioattivi, oltre al fatto che si usurano velocemente. Ma il processo non prevede generazione di scorie a lungo o lunghissimo termine, come invece sappiamo bene avvenire negli impianti di fissione, il che semplifica notevolmente la gestione del ciclo di vita di un reattore.