Cotone, nylon, poliestere: micro guida al consumo (cioè alla distruzione) consapevole dell’abbigliamento

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7 novembre 2025 592 parole

Dell’e-costo della moda (una “malattia del del genere umano” secondo N. Georgescu Roegen), ne abbiamo già parlato. Vogliamo qui fornire qualche informazione più specifica, in modo da rendere il lettore più consapevole dell’impatto delle proprie scelte di acquisto di nuovi capi di abbigliamento.

Iniziamo dal cotone, la fibra naturale che nel 1950 contava per più del 70% di tutta la produzione tessile mondiale e che oggi rappresenta solo il 20% di essa, spodestato dalle fibre sintetiche (soprattutto poliestere), che rappresentano oggi il 67% del totale. Ciò nonostante la produzione mondiale annua di cotone è comunque nel frattempo quintuplicata, passando da 10 a circa 25 milioni di tonnellate!

Un chilogrammo di tessuto di cotone bianco “convenzionale” ha un e-costo di 40 kWh, comprese le fasi di produzione, distribuzione e il consumo durante l’uso, ovvero il lavaggio (fonte). In caso di cotone “organico” l’e-costo di un chilo di tessuto dovrebbe scendere a 15,2 kWh (fonte). Assumiamo come sempre questi valori come indicativi, certamente non applicabili indiscriminatamente a tutte le nostre t-shirt ma, diciamo, direzionalmente corretti.

Venendo alle fibre tessili la parte del leone la fa il poliestere (fatto con il polietilene, lo stesso delle bottiglie d’acqua), che costituisce l’84% di tutte le fibre sintetiche prodotte (in peso) e per il 68% viene prodotto in Cina. Seguono il Nylon (poliammide) 8%, e le altre fibre (polipropilene, acrilici, elastan) 6% (fonte). Fibre queste tutte prodotte a partire dal petrolio.

Questi gli e-costi stimati dei tessuti fatti nelle principali fibre sintetiche:

Fibrabianco (kWh)colorato +20% (kWh)
Poliestere60,366
Nylon95114
Acrilica74,190

Abbiamo ipotizzato un incremento del 20% dell’energia per il processo di colorazione, poiché i valori indicati nello studio sono relativi al tessuto bianco.

Una t-shirt bianca del peso di 250 grammi avrebbe quindi, a seconda del materiale, questi e-costi:

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A questi valori dovremmo aggiungere un e-costo aggiuntivo (20% nella nostra ipotesi) nel caso si tratti di un capo colorato.

Pensateci quando comprate – se proprio dovete farlo – una t-shirt. Se non la comprate ne trae beneficio l’ambiente e il vostro armadio”, come dice il “de-vendeur” di questa pubblicità dell’agenzia francese per la transizione ecologica, subito tolta dai palinsesti televisivi d’oltralpe per le pressioni degli industriali della moda (ne avevamo parlato qui).

Ovviamente questo è solo un aspetto relativo all’impatto ambientale dei tessuti. Un discorso a parte merita la biodegradabilità dei materiali in questione: infatti se il cotone disperso nell’ambiente si degrada in meno di un mese e le altre fibre tessili di origine vegetale o animale si degradano nell’arco di (massimo) 5 anni, il poliestere ed il nylon ci mettono fino a 200 anni (fonte). Le fibre sintetiche generano inoltre microplastiche che, come noto, si trovano ormai nei luoghi più remoti e (fino a ieri) incontaminati del pianeta e sono entrate nella catena alimentare, diventando parte integrante (dagli effetti sostanzialmente ignoti) degli organismi vegetali ed animali, uomo compreso, persino nella placenta e nel cervello.

È inoltre inutile – anche in questo caso – confidare nel riciclaggio dei tessuti. Secondo i dati dell’Unione Europea solo l’1% dei tessuti viene riciclato. Il resto finisce in discarica in Europa o in Paesi come il Ghana, dove possono essere dispersi nell’ambiente a basso costo (economico).

Dobbiamo anche liberarci della moda, quella malattia della mente umana che ti fa buttare via un cappotto mentre può ancora svolgere il suo specifico compito. Comprare un’auto “nuova” ogni anno e rifare la casa ogni due anni è un crimine bio-economico.

N. Georgescu-Roegen, Minimal Bioeconomic Program, 1972

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