La cronaca di questi giorni ci spinge a far giustizia di due radicati stereotipi: il primo è che l’agricoltura (rispetto all’industria) sia un luogo di maggiore equilibrio tra uomo e ambiente, il secondo è che la “green transition” possa essere considerata un luogo di grandi opportunità e di “magnifiche e progressive sorti”.
Per quanto riguarda il primo aspetto basti dire che il consumo di fertilizzanti (a base azoto, potassio e fosfati) dal 1961 ad oggi è sestuplicato (da 33 a 213 milioni di tonnellate). I fertilizzanti a base azoto (ammoniaca) rappresentano il 55% di tutti i fertilizzanti (109 Mt nel 2021), vengono realizzati con grande uso di energia da combustibili fossili: l’ammoniaca prodotta nel mondo per la produzione di fertilizzanti ha un e-costo annuo di 1.300 TWh (dato medio Ecoinvent), cioè poco meno dell’energia consumata in Italia (compresa climatizzazione, trasporti, elettricità, produzione agricola e industriale, etc.). Inoltre la lavorazione del terreno, irrigazione, raccolta, confezionamento e condizionamento vengono fatti con macchine agricole e largo uso di combustibili fossili, tant’è che la quota di energia incorporata da fonti rinnovabili nell’agricoltura è circa la metà di quella dell’industria. Insomma, quando mangiamo un piatto di spaghetti al pomodoro, da un punto di vista energetico mangiamo (se va bene) 90% petrolio e 10% energia solare! A margine, il fatto che una delle principali ragioni di protesta degli agricoltori fosse la normativa europea di messa al bando progressiva di alcuni pesticidi, considerati una minaccia esiziale per le api (con buona pace del processo di impollinazione che si studia dalle elementari), chiarisce quale può essere nei fatti il rapporto tra industria agricola alimentare umana e ambiente.
Senza menzionare gli altri enormi impatti ambientali del modello agricolo attuale in termini di emissioni di altri elementi inquinanti, perdita di biodiversità, impoverimento del suolo, riduzione dei biomi, etc.
Sul secondo aspetto si potrebbe dire che “le chiacchiere stanno a zero”: una transizione verso un sistema economico e sociale sostenibile da un punto di vista ambientale in presenza di 8,5 miliardi di persone una gran parte delle quali vorrebbe migliorare la propria condizione di vita e le altre non vederla degradarsi non può essere una passeggiata né, tanto meno, un pranzo di gala, per quanto si voglia ripetere all’infinito il mantra della “crescita sostenibile”.
A contrario, riteniamo necessario e moralmente doveroso chiarire le reali implicazioni economiche e sociali della transizione: venderla come “un fantastico mondo di opportunità” inevitabilmente si risolve, di fronte alla realtà dei fatti, in cocente delusione e - nelle parti più stolide della società - nell’accusa di ambientalismo “ideologico” e nella negazione del precipizio verso cui serenamente si trotterella.